Il “Futuro” di Claudio Magris

Il senso della vita

Il senso della vita

Di Claudio Magris

Una volta, diceva Karl Valentin, il cabarettista così ammirato da Brecht, il futuro era migliore. Non il passato, così orribile e pieno di ingiustizie, ma il futuro, l’idea e la speranza del futuro, di un futuro diverso e migliore da costruire. Non il piccolo futuro immediato, quello che non c’è mai perché è sempre in arrivo e mai reale e la sua attesa, la smania che esso arrivi il più presto possibile, brucia il presente, l’unica vita che si ha e che viene consumata e distrutta dalla febbre che arrivi qualcosa d’altro, che in questa corsa non c’è veramente mai. Si hanno sempre tante ragioni per sperare che il tempo reale in cui si vive passi velocemente; si aspetta con ansia che arrivi presto il domani, la settimana prossima, quando si conoscerà il risultato delle elezioni, il responso di un’analisi clinica, l’inizio delle vacanze, il matrimonio o il divorzio. E così si vive non per vivere ma per aver già vissuto, per essere un po’ più vicini alla morte; si vive per la morte.
Nessuno come Michelstaedter ha colto questa corsa verso il nulla che distrugge la vita.

Lo aveva già detto Gesù, quando invita a non pensare al domani e a concentrarsi sull’oggi.

Nella lingua dei Chamacoco, una popolazione india del Paraguay, la negazione si esprime col futuro; per dire «non ti amo» si dice «ti amerò». Dunque ora, adesso, non ti amo. Così il debitore insolvente dice «pagherò», dunque non ti pago adesso, ti pagherò domani, sempre domani, dunque mai. In un’altra lingua dell’Amazzonia ricordata da Canetti in Massa e potere, l’andare verso il futuro è espresso con lo stesso verbo che indica il procedere all’indietro; si va al buio verso l’ignoto, mentre l’orizzonte è il paesaggio da cui ci si allontana e che dunque si perde, si allarga, diventa più vasto e lontano.

Se si sta con la faccia attaccata al muro si vede solo quel pezzo di muro e a mano a mano che si va indietro si vede una realtà sempre più larga e sempre più in fuga. Così il neonato attaccato al seno vede solo quel seno e a mano a mano che cresce vede tante più cose e perde quel seno. Non è questo piccolo incalzante futuro che ci manca; esso è anzi il ritmo sempre più frenetico della nostra esistenza, oggi sempre più distrutta in una corsa non a fare ma ad aver già fatto, rispondere alle mail pochi secondi dopo averle ricevute, rispondere agli sms e cancellarli immediatamente.

Nei Cento giorni, il romanzo del grande Joseph Roth, Napoleone è un amatore che consuma il sesso con una fretta svergognata, il più rapidamente possibile per passare subito ad altro. La vita come eiaculazione precoce. Alle donne dell’imperatore che non fanno a tempo a godere prima che tutto sia finito resta solo la stordita soddisfazione di essere state a letto, si fa per dire, con un amante incoronato. Magra soddisfazione.

Non è questo il futuro rimpianto da Karl Valentin, artista mordace e malinconico-ironico maestro di quel cabaret che è la vita. È il grande futuro, il futuro dei profeti biblici sempre in cammino verso una Terra Promessa. Nei suoi momenti più alti la Storia umana è stata animata dal senso di questo cammino, dall’esigenza di una vita migliore, più giusta, più libera dalla violenza, dalla tirannide, dalle sordide disuguaglianze, dalla fame, dalla miseria, dalla sofferenza, dallo sfruttamento.

Questo cammino utopico non distrugge il presente ma dà senso a ogni suo istante, a ogni passo del suo andare, e conferisce l’eternità del valore alla contingenza dell’attimo. Mosè sapeva che non avrebbe mai messo il suo piede nella Terra Promessa, ma non smise di camminare e di guidare il suo popolo nella sua direzione. Il «principio speranza» di Bloch; il «sogno di una cosa» di cui parlava Marx, sogno che dà senso alla realtà e dunque è la realtà.

Sino a pochi decenni fa la Storia e la politica erano animate, pervase da questa tensione. Si parlava di libertà, della necessità di difenderla e di allargarla, di ingiustizie da sanare, di oppressi da liberare. Certamente queste tensioni ideali erano usate e manovrate da Stati e da movimenti politici che se ne servivano come di strumenti della loro volontà di potenza, così come i movimenti che volevano creare un definitivo paradiso di libertà e giustizia hanno spesso sparso sangue innocente e creato inferni. «Libertà, quanti delitti si commettono in tuo nome», ha detto Madame Roland, eroina della Rivoluzione Francese, salendo sul palco della ghigliottina inventato proprio dalla Rivoluzione francese.

Ma i pervertimenti delle grandi idee di libertà e giustizia non avevano spento i fermenti di quelle idee, il senso di dover rendere più umano e più abitabile il mondo, la fede nel cambiamento e nella sua necessità. L’utopia totalitaria che crede di possedere l’unica ricetta per creare un paradiso e di poterla imporre agli altri o addirittura di aver già creato il paradiso è un incubo destinato al sanguinoso fallimento.

Ma l’utopia quale progetto di un mondo migliore per tutti e quale compito di correggere i proprio errori è il sale della terra. E questo sale che manca al nostro mondo scipito, che sembra aver distrutto il futuro nonostante gli incredibili progressi della sua tecnologia, i sogni di immortalità o ibernazione, di doni e robot molto più longevi dell’individuo. Pure all’Europa — o meglio all’Unione Europea, che dovrebbe dare unità politica alla sua cultura e alla sua civiltà — sembra mancare questo sale, elemento unificante.

L’Unione Europea sembra inceppata dall’ansia di quel piccolo futuro immediato, ansiogeno e paralizzante

Sembra presa soltanto dal rattoppo delle proprie falle, rattoppo sempre provvisorio e presto sfilacciato. Sembra tutta protesa a rammendare buchi e strappi, a rabberciare fratture tra l’uno e l’altro dei Paesi che la compongono, a rinviare le soluzioni — difficili ma necessarie — dei problemi, a eludere anziché ad affrontare le difficoltà e le contraddizioni. Ad esempio, a fingere di non vedere le inaccettabili contraddizioni tra i principi e i valori sui quali essa si fonda e le Costituzioni di alcuni Paesi che fanno parte di essa e negano quei valori.

Questa tattica di piccola sopravvivenza fa morire una compagine politica. La Storia è finita, dice una famosa e vuota, farsesca frase. Finita ovvero uccisa. Il sistema economico oggi vincente si proclama non solo vincente oggi, il che oggi è vero, ma il migliore di tutti i sistemi possibili, l’unico possibile, lo stadio finale dell’evoluzione umana e storica, la fine della Storia e dunque della speranza, la più grande delle virtù — diceva il geniale scrittore cattolico Péguy — perché è così difficile vedere come vanno le cose e tuttavia credere che potranno e dovranno essere diverse. Lo aveva preceduto Kant, quando si chiedeva «Cosa posso sperare?».

È la speranza «nonostante» di cui parla il Cristianesimo, carne presente del futuro; il Messia ebraico che deve ancora arrivare e l’attesa del quale è già il futuro. Sperare nonostante — nonostante i milioni e milioni di umiliati e offesi che vivono sofferenze innominabili e muoiono al buio, nel buio di devastazione e ingiustizia. Il futuro che non c’è esiste nella speranza. Lo abbiamo appreso già a scuola, quando abbiamo imparato che spero, prometto e giuro vogliono l’infinito futuro.

in “la Lettura” del 3 febbraio 2019



Psicologa Psicoterapeuta Milano

Dott.ssa Daniela Grazioli

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