Scrivere per consolarsi non è certo una novità, ma adesso è diventato un metodo

scritturaFonte: CorrieredellaSera.it – 26/10/2008

 

 

Ce ne siamo accorti tutti: in libreria si moltiplicano i libri in cui l’autore spiega tutto della sua anoressia, piuttosto che della sua depressione, o della vittoria su una grave malattia. E i libri vendono. Per non parlare dei tanti salotti televisivi affollati di gente intenta a raccontarsi e delle «piazze informatiche», i blob, in cui si parla di sé a un pubblico invitato a rispondere. Cos’è tutta questa voglia di esporsi? Ci sarà certo chi vuole i suoi cinque minuti di notorietà, ma questo basta a spiegare il fenomeno? E se tutto questo narrarsi fosse anche un modo per superare i propri problemi, per «curarsi»? Ne è convinto Duccio Demetrio, docente di filosofia dell’educazione all’Università di Milano Bicocca, autore del recente La scrittura Clinica – Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali (Ed.Raffaello Cortina).

LUNGA TRADIZIONE – «Da secoli – ricorda Demetrio – si scrive per superare i momenti di sconforto, per ritrovare se stessi. La scrittura, se adottata con metodo e regolarità, come ha chiarito per primo Freud, è uno straordinario mezzo di riparazione, di ricucitura simbolica di quanto si è lacerato e rotto dentro di noi.
Un mezzo, fra l’altro, sempre a portata di mano». «Per quasi vent’ anni – continua Demetrio – ho aiutato e guidato donne e uomini intenzionati a scrivere di se stessi per reagire alla sofferenza. Si trattava di persone vittime di disagi, che ho voluto definire “esistenziali”, per distinguerli da ben più gravi e vere patologie. Sto parlando di stress, insuccessi professionali, perdite, abbandoni, lutti, malattie, invecchiamento. E di queste esperienze, varie e molteplici, racconto nel mio ultimo libro». Che cosa accade a chi affronta un percorso di scrittura «guidata»?

MAGGIORE RICCHEZZA INTELLETTUALE – «Le persone non diventano altre, ma riprendono la loro vita normale più ricche intellettualmente. La scrittura stimola sempre l’intelligenza e favorisce un recupero di interesse per la vita». Ma perché così spesso si sente il bisogno di scrivere della propria sofferenza? «Ciascuno, se ha la fortuna di non essere del tutto analfabeta, posto di fronte a una solitudine non cercata, all’isolamento, all’incomprensione, scopre in modo naturale che la scrittura mitiga il dolore della distanza, dell’esclusione, della lontananza, della diversità.
La penna diviene una risorsa, spesso l’unica, per non perdere il contatto col mondo. Il solo gesto di por mano alla penna, o alla tastiera, genera una reazione psichica salutare. Dinanzi all’impossibilità di comunicare con gli altri, ci si inventa una controfigura nella quale rispecchiarsi, con la quale dialogare. La scrittura, attività solitaria, diventa un’occasione per ristabilire una relazione con gli altri: prima immaginaria, poi sempre più reale. Specie se, oltre ad affidarsi alla scrittura per libero impulso, si può contare su un aiuto terapeutico tradizionale o sulla presenza di specialisti, di accompagnatori, che presso la nostra università, formiamo da tempo».

IL RISCHIO «PENTIMENTO»– Ci sono persone che si pentono di essersi raccontate? O che si sottraggono alle sollecitazioni del metodo autobiografico? «All’inizio le resistenze possono essere molte. Si evita di cercarsi, di esprimere il vero se stesso. Ma la “cura” della scrittura inizia quando si arriva a scoprire tutta la bellezza e l’entusiasmo (terapeutico) connessi al riuscire – contro ogni paura ed aspettativa negativa – a scrivere: racconti, poesie, diari, capitoli della propria autobiografia, memorie di viaggio, lettere, biografie di persone conosciute.
La scrittura non guarisce dal male di vivere, ma è una sorta di “reintegratore” psicologico, intellettuale, morale». Tra questo approccio e lo psicodramma c’è qualche affinità? «Lo psicodramma è una terapia che si fonda sulla narrazione orale, sulla messa in scena – dinanzi ad altri – di alcune circostanze della propria vita rimosse o controllate. Si entra in un sosia, per buttar fuori quello che non si aveva il coraggio di dire. Il metodo della scrittura, che si avvale di criteri sia anamnestici che diagnostici per studiare insieme agli autori le loro resistenze a ricordare e a scrivere, è invece un’attività solitaria che proietta sul foglio evocazioni del passato e momenti del presente. Il consulente scrive a sua volta di sé mentre accompagna la persona che gli si affida, in uno scambio umano, oltre che clinico, profondo. La soddisfazione che vive un autore nel consegnare al consulente la propria storia terminata è tra i momenti più significativi di questo metodo». Quale sostegno possono offrire le nuove tecnologie della scrittura (blog, You tube, mail, web camera) e a chi? «Le scritture on line, nelle loro diverse forme, risolvono senz’altro alcuni problemi inerenti al bisogno di comunicare.
Reinseriscono in una rete sociale, seppur virtuale. Il metodo che presento nel mio libro segue però tutt’altra filosofia perché vuole aiutare le persone a stare soprattutto (e bene) con se stesse, a crescere e a migliorarsi imparando a fare a meno degli altri fin dove è possibile. La scrittura di sé risveglia però anche la voglia di dedicarsi all’ascolto degli altri e il suo potere curativo sta anche in questo».



Psicologa Psicoterapeuta Milano

Dott.ssa Daniela Grazioli

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